TRISHA DONNELLY
Against communication
Interview with Andrea Viliani
From “UnDo.net”
2009

The catalogues, interviews, press releases and documentations for Trisha Donnelly’s exhibitions are very few, if not completely absent. In fact, like other artists of her generation, Donnelly systematically eludes the ways in which an exhibition is communicated, forcing other forms of involvement and transmission. In this text, Andrea Viliani, curator of Donnelly’s 2009 solo show at Mambo, discusses her work by looking at how the artist brings institutional critique from previous generations towards new horizons, charging institutions with new possibilities.

Trisha Donnelly è un’artista che non ama le definizioni, che non ha formule, ma che gioca sulle possibilità di “re-incantare” atti scontati. Nella sua personale al MAMbo fa leva sull’elemento sorpresa e sull’imponderabile, con un’esposizione che si dilata fino a comprendere evocazioni del Teatro Anatomico e il senso spaziale morandiano.
In questa intervista ne abbiamo parlato con Andrea Viliani, curatore della mostra pensata appositamente per Bologna. Abbiamo discusso le dinamiche di comunicazione intrinseche all’opera dell’artista e su come Donnelly, attraverso un’operazione di shake, scuota il contenuto istituzionale e il formato espositivo. Il suo è un tentativo di lavorare all’interno del museo intendendolo come uno spazio carico di possibilità, di potenzialità d’interpretazione e di imprevisti che, rimettendo in carica l’istituzione, la trasformano in un luogo dove si può ancora raccontare una storia.

Intervista con Andrea Viliani
curatore della mostra di Trisha Donnelly al MAMbo di Bologna

A cura di Antonella Miggiano

 

Antonella Miggiano: L’intento di Trisha Donnelly credo sia quello di rendere la comunicazione dell’evento espositivo parte integrante del suo progetto, attraverso messaggi che vogliono stimolare meccanismi d’intuizione e di memoria, anziché annunciare le opere e fornire una conoscenza dei fatti pre-scritta ed esplicativa. La mia domanda è: leggendo il testo che l’artista ha diffuso in occasione della sua personale al MAMbo, quali sono state le tue intuizioni e come hai reagito?

Andrea Villani: Entrando da visitatore, alcuni anni fa, in una mostra di Trisha Donnelly al Koelnischer Kunstverein di Colonia, sono stato accolto da uno strano suono simile ad un barrito o al verso di un animale preistorico. Credo che sia stato un ingresso assolutamente spiazzante, sia per me che per gli altri visitatori, e per rispondere con un esempio concreto alla tua domanda su come Trisha Donnelly imposta la comunicazione nelle sue mostre, userei proprio l’immagine di questo strano suono che accoglieva chi entrava al Koelnischer Kunstverein.
Penso che così come il comunicato stampa, anche il modo di accogliere il pubblico all’interno dello spazio espositivo siano interpretati dall’artista come un modo per re-incantare un atto che è dato per scontato, un momento che viene in qualche modo già interpretato a priori dal visitatore, seguendo una serie di meccanismi indotti dalla pratica che portano a comportarsi sempre in un certo modo.
Entrando nei meccanismi di standardizzazione degli strumenti, con cui una mostra istituzionale si esprime, considerandoli da un punto di vista imprevisto e trasformandoli in atti dotati di una carica e di un energia diversa, l’artista rivitalizza un gesto abitudinario, in qualche modo anticipa quello che è il contenuto stesso della sua pratica, che è anche un tentativo di lavorare all’interno del museo come in uno spazio non definito, ma carico di potenzialità, di possibilità, di interpretazioni ulteriori, di imprevisti, di intuizioni…
Questo aspetto diventa importante proprio a partire dal momento stesso in cui si annuncia la mostra, cercando di caricare tutta la comunicazione con le caratteristiche proprie di un annuncio, cioè come qualcosa che trascende la scrittura e i modi tradizionali della comunicazione a favore di qualcosa di inaspettato e meno scontato, proprio come quell’urlo che si sentiva nel museo di Colonia. Partire cioè fin dall’inizio con un piede diverso, con un occhio più aperto, con una curiosità e con una meraviglia che abbiano caratteristiche inusitate rispetto alla norma della visita ad una mostra.

AM: Nel testo ci sono immagini molto evocative, giocando come si fa con le parole (durante l’intervista dico paure, ndr), se io ti dico: scanner, occhio del pittore, teatro anatomico, riflesso, piano inclinato, buon compleanno… che associazioni ti vengono in mente?

AV: Innanzitutto credo di aver intuito, e mi è piaciuto molto, questo piccolo lapsus, perché hai usato il termine “paure” al posto di “parole”…(ridiamo)

AM: Credo sia stato proprio un lapsus, forse è stata una mia intuizione, o forse tutte queste parole messe insieme evocano un sentimento inconscio simile alla paura…

AV: Esatto, io credo che usando le parole senza pretendere di conoscerne il significato, o potendosi permettere degli accostamenti che in qualche modo non appartengono alla grammatica tradizionale del gesto artistico o della comunicazione giornalistica, Donnelly fa un’operazione di shake, scuote il contenuto istituzionale e il formato espositivo creando delle situazioni inattese, che possono in qualche modo fare paura.
Lavorando con lei allo sviluppo del progetto come curatore della mostra, ho provato veramente sensazioni molto forti, a volte di paura, a volte di grande sorpresa, proprio perché ci trovavamo di fronte a situazioni investite di una qualità e di un tono che non sospettavo, proprio come fossero degli atti di vocazione. Ad esempio, lo scanner è in qualche modo un occhio meccanico, che permette di acquisire un’immagine e di riprodurla altrove; in modi analoghi Trisha parla della radio o della televisione, ma anche del telefono.
Una volta, ad esempio, chiacchierando con un curatore definì una sua mostra come una telefonata -un po’ come quando ha parlato con me di trasmissioni radio a proposito della sua mostra al MAMbo – e cioè come il passaggio di dati attraverso dei meccanismi di codifica e decodifica da un punto ad un altro.
Quello che accade all’interno di questo passaggio è in qualche modo il sintomo di un lavoro sull’energia, sulla casualità, sullo stupore, sull’accidente… è lavorare cioè su degli eventi che non sono mai del tutto controllabili e che investono elementi statici, come può essere un museo, di energia di trasmissione, di energia di passaggio.
Un testo, come quello che abbiamo diffuso, scuote chi lo legge, perché pur dicendo alla fine le stesse cose di un comunicato stampa, non è scritto allo stesso modo, in quel modo convenzionale in cui siamo abituati a leggere una comunicazione giornalistica.
In qualche modo il comunicato stampa, ma anche la mostra stessa, sono esattamente la trasmissione e l’accoglimento di tutta quella casualità, di tutta quella sorpresa, di tutto quel “cimento dell’armonia e dell’invenzione” che succede quando viene trasmesso qualcosa, dove l’elemento sorpresa e l’elemento paura fanno parte del gioco. In questa telefonata, ad esempio, non stiamo seguendo una sceneggiatura, quindi può accadere che io cerchi un’idea, che tu intervenga per parlare d’altro, o che si interrompa la comunicazione…
Questo è l’elemento sul quale lavora Trisha Donnelly, un elemento imponderabile, che potremmo riassumere con la parola “energia”, un flusso che attraversa tutte le immagini che mettevi insieme prima e che si sviluppa a partire dall’atto di creazione e di trasmissione. Forse è anche per questo che le mostre di Trisha Donnelly sono in qualche modo degli eventi performativi, perché “avvengono” alla presenza dello spettatore, che è fondamentale, così come la relazione con l’architettura da parte dell’artista che lavora a lungo sullo spazio espositivo per cercare di metterlo in “movimento”, di dargli una possibilità di essere attraversato da questo flusso energetico.
La mostra quindi “avviene” nel momento in cui l’artista guarda, sente, ascolta lo spazio espositivo e nel momento in cui questo stesso atteggiamento è condiviso con lo spettatore e dallo spettatore.

AM: Nel testo Donnelly parla del Teatro Anatomico, sia in una dimensione simbolica, come metafora di una visione ravvicinata e prismatica sullo stato delle cose, “senza cavi di connessione”, sia perché il progetto di Trisha pensato per Bologna si inserisce in un segmento spazio-temporale dilatato che include la dimensione barocca del Teatro Anatomico di Bologna e la mostra di Morandi. In questo piano spaziale e temporale immaginario, qual é, secondo te, un possibile punto d’incontro tra questi tre elementi?

AV: A novembre, insieme a Trisha, abbiamo girato del materiale audio-video nel Teatro Anatomico dell’Archiginnasio, prima sede storica dell’Università di Bologna che attualmente conserva oggetti e schegge del Teatro originale, dopo la ricostruzione avvenuta nel secondo dopoguerra, visto che un bombardamento lo aveva ridotto in frammenti.
Entrando in quello spazio e accostandoci alla sua storia c’è più di un passaggio di energia, se pensiamo ad esempio alla funzione che aveva in origine, che oscilla tra la messa in scena teatrale e la funzione scolastica di trasmissione di sapere.
Il nome stesso di Teatro Anatomico tiene insieme questi due aspetti e anche la sua struttura: uno spazio circolare dove gli studenti seguivano il professore con gli occhi rivolti tutti verso il marmo centrale dove era steso il corpo da vivisezionare. Uno spazio che teoricamente si presta a quell’azione di scuotimento di cui ti parlavo prima, ma in relazione alla mostra, forse nulla avverrà in quello spazio.
Quello che abbiamo fatto, attraverso un digital recording, è stata un’azione di mappatura, una “scannerizzazione” dello spazio dalla quale l’artista ha successivamente tratto una serie di immagini e di suoni (compressi nella camera digitale) che potrebbero essere ripresentati all’interno del MAMbo come frammenti – esattamente come i frammenti postbellici del teatro Anatomico – decompressi attraverso tutta una serie di gesti e azioni, che potrebbero avvenire in mostra e sui quali l’artista sta ancora lavorando.

AV: Un’altra possibile piattaforma “generatrice” della mostra -parlo di “generazione” e non di uso dello spazio o di accadimento nello spazio- è la concomitanza con la mostra di Giorgio Morandi. Visitando il Museo Morandi insieme a Trisha mi ricordo che ci eravamo soffermati su una stanza con alcuni acquerelli nei quali l’artista aveva ritrovato una certa affinità, in termini di sensazioni e di energia, con la sua opera, in particolare in quegli acquerelli dove la stesura di colore e il vuoto creavano dei piani differenti: teiere, bottiglie, oliere e altri oggetti del repertorio morandiano venivano in qualche modo ridefiniti sulla bi-dimensione della carta, attraverso un atto di scivolamento da un piano ad un altro.
Il senso della profondità, la capacità di evocare una dimensione che si sviluppa nello spazio attraverso l’occhio e la mano che ricreano, con stesure di colore, il senso spaziale di un oggetto, è in qualche modo un’operazione “sub specie Trisha Donnelly”, analoga cioè a quella dello scanner o analoga a quella del teatro anatomico. Sono piani inclinati di attenzione e di creazione della forma e del senso che tutti insieme, e senza che nulla diventi in qualche modo il riferimento diretto a qualcos’altro, hanno generato la mostra di Trisha al MAMbo.
Questo atto di “messa in movimento” dello spazio del museo attraverso un’energia analoga a quella che Morandi riesce a conferire agli oggetti, è in qualche modo lo sforzo che Trisha sta cercando di compiere sullo spazio del museo, attraverso una serie di metafore che lasciano l’interpretazione stessa della mostra all’incontro mobile tra questi piani.

AM: Ritornando al discorso di prima, Mario Perniola nel testo “Contro la comunicazione” dice: “La comunicazione è l’opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione su un disinteresse interessato che non fugge il mondo, ma lo muove”. Sei d’accordo con questo pensiero?

AV: Assolutamente sì, tra l’altro “Contro la comunicazione” è un’espressione che potremmo usare per questa tipologia di artisti, che non vanno contro l’idea di dare qualcosa attraverso la comunicazione, ma contro un’idea della comunicazione che spiega in modo univoco le cose, che porta verso un determinato fine, partendo da un determinato inizio.
Questo tipo di comunicazione è una comunicazione povera, che perde molte occasioni per comunicare, cioè per trasmettere in modo diverso, in modo più completo e più articolato le cose, anche quelle più complesse. Sicuramente quello che dice Perniola ha molto a che fare con il modo con cui un’artista come Trisha Donnelly lavora.

AM: Ma questo atteggiamento di Donnelly nei confronti della comunicazione mediata non è allo stesso tempo arma e bersaglio del suo lavoro? Dal momento che la mostra si svolge nel museo mi fa pensare agli artisti che orbitarono intorno all’Institutional Critique negli anni ’60-’70 e che posero al centro della loro riflessione l’istituzione artistica, facendola diventare allo stesso tempo sia la garanzia che l’oggetto di una sorta di contestazione… Cosa ne pensi?

AV: Credo che l’artista lavori proprio su questo… però penso che ci sia una differenza notevole rispetto alla generazione degli anni ’60-’70, perché mentre loro lavorando nel museo ne svelavano i meccanismi, un artista come Donnelly – e credo anche gli altri artisti della sua generazione – lavorando nel museo ne rivitalizzano i meccanismi, ne sanciscono delle possibilità narrative ulteriori. In questo senso si potrebbe parlare di una narrazione piuttosto che di una critica, un atto affabulatorio che rimettendo in carica l’istituzione la trasforma in uno spazio dove si può raccontare una storia.
Il punto di partenza è analogo, e consiste in quell’estrema consapevolezza di come le istituzioni potrebbero deprivare, attraverso una comunicazione standardizzata, l’esperienza della mostra, ma il fine è diverso, forse già implicito in quello che dicevano gli artisti dell’Institutional Critique (pensa ai musei immaginari di Marcel Broodthaers, ma anche a curatori come Arald Szeemann), ma sviluppato in un modo diverso dalla generazione attuale e cioè andando incontro all’istituzione utilizzandone le potenzialità non colte.
È una specie di avventura istituzionale, più che un atteggiamento analitico, critico, per costruire una mostra all’interno di un museo, partendo dalla consapevolezza di non accettare una certa istituzionalità, in termini espressivi, comunicativi, installativi ecc.

AM: L’attenzione dell’artista nei confronti della comunicazione è in particolare rivolta agli strumenti dell’informazione che ruotano intorno all’evento prima dell’inaugurazione (comunicato stampa, conferenze, save the date) oppure è presente anche durante e dopo la mostra? Penso al fatto che molte persone vedranno la mostra seguendo una visita guidata o le indicazioni scritte su giornali e riviste… Quanto interessa all’artista leggere o ascoltare cosa si costruisce intorno alla percezione dei suoi lavori?

AV: Diciamo che messa in moto la macchina, questa può andare anche per la strada sbagliata… Non credo che Trisha sia una di quegli artisti interessati al gioco concettuale dell’armamentario comunicativo del museo, né cerca soluzioni ad hoc per ogni tipo di espressione all’interno del cursus istituzionale della mostra. I suoi modi di fare sono più che altro accenni a possibilità diverse.

AM: Cosa rimarrà a livello documentativo e divulgativo della mostra? Ci sarà un catalogo?

AV: Non è detto… in realtà l’artista non ama fare cataloghi, perché secondo lei è un gesto di chiusura nei confronti dell’interpretazione e della comunicazione; è in qualche modo come posare il telefono dopo una conversazione. Nel suo caso, invece, la cornetta rimane alzata, e la comunicazione continua, rimane accesa, aperta. Forse lo strumento più idoneo per documentare le mostre di Trisha Donnelly non è né la documentazione fotografica, che comunque esiste, né il catalogo. Di fatto l’artista ne ha fatti ben pochi, che sono più che altro libri di testo, con racconti, favole… anche molto umili da un punto di vista editoriale. Sono dei piccoli oggetti che si collocano all’interno di quell’universo di gesti che caratterizza il suo lavoro; gesti che non sono mai prestabiliti o dati una volta per tutte.
Un artista che lavora in modo analogo, ma allo stesso tempo in maniera molto diversa, potrebbe essere Tino Sehgal, il quale rifiuta la documentazione fotografica, perché non ha fiducia nella possibilità di documentare qualcosa che nasce per essere esperito in un altro modo. Trisha è un artista che non ha formule, la sua posizione non è quella di dire – non faccio cataloghi – più semplicemente non crede che quello sia lo strumento più appropriato al tipo di lavoro che c’è dietro la costruzione di una mostra.

AM: Una domanda un po’ più tecnica che riguarda il lavoro di comunicazione e approfondimento all’interno del museo: in questo caso l’ufficio di comunicazione come ha gestito e come gestirà tutto l’apparato informativo e didattico inerente al progetto della Donnelly?

AV: Naturalmente continuiamo a fare il nostro lavoro, anche in questo momento, cercando di comunicare le nostre scelte in modo articolato, necessariamente dialogico, sforzandoci di non chiudere, ma di lasciare aperto.
Ci sarà ad esempio un incontro tra Trisha e gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, organizzato dal nostro dipartimento educativo, che sarà importante per sviluppare un certo tipo di approccio alla mostra e che credo sarà molto divertente. In fondo quello che chiede l’artista è di non dare nulla per scontato visitando la mostra, ma di vederne il lato al di là dello specchio, che è una cosa molto invitante, anche da un punto di vista didattico.

AM: Ma sarà così anche per la conferenza stampa?

AV: Non è detto, proprio perché, come ti dicevo non esistono formule, è possibile che questa sia una noiosissima, normale conferenza stampa, dove cercheremo di dire le stesse cose in modo semplice. Alla fine la cosa importante sarà la mostra, che è il fulcro di tutte queste riflessioni, di questi tentativi di creare qualcosa di diverso, magari anche simbolicamente o metaforicamente, magari anche solo nelle sensazioni di alcuni spettatori, senza pensare a qualche formula standard o spettacolare. È semplicemente qualcosa che può accadere e che in qualche modo ricarica l’evento in modo aurorale.

AM: Immaginando che questa intervista diventi parte e strumento dell’apparato informativo della mostra, che può dare al lettore un ulteriore spunto di riflessione sul lavoro dell’artista, qual è la domanda che ti faresti?

AV: Probabilmente, non me ne farei nessuna. Me ne sono fatte tante, ma a questo punto le uniche domande sensate sono quelle che ognuno si farà all’interno dello spazio espositivo. Direi quindi di aspettare e poi finalmente di andare a visitare la mostra, di passeggiarci dentro e una volta lì porsi altre domande.

 


 

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