MARCO SCOTINI
Laura Grisi: The Measuring of Time

In questo testo, estratto dal volume Laura Grisi. The Measuring of Time, prima monografia retrospettiva dedicata all’artista, il critico e curatore Marco Scotini ripercorre l’attività e la visione innovativa di Laura Grisi, protagonista della mostra Cosmogonie, in corso fino al 25 agosto 2024.

UNA RISERVA D’ARIA
LAURA GRISI E L’ORDINE DELL’IMPONDERABILE

Far dire le stesse 4 parole a 100 persone diverse. [i] 

1969. Laura Grisi realizza una stanza a volume cubico totalmente bianca[ii]. Null’altro, in linea teorica, che la pura circoscrizione di uno spazio. Alle pareti un bianco fluorescente è in grado di riemettere, ad una lunghezza d’onda maggiore, le radiazioni luminose ricevute. Mentre un sottile tubo di neon – a luce ancora più intensa – corre lungo l’intero perimetro della stanza, evidenziando gli angoli di giunzione tra pareti, soffitto e pavimento. Senza alcuna volontà di dare forma allo spazio, tantomeno di definire un’immagine al suo interno.  

Il filo di luce nell’ambiente è tutto fuorché il segno di qualcosa: come dice l’artista, “modifica il suo volume solo di un centimetro cubo in meno”[iii]. L’effetto che produce, in realtà, è quello di una smaterializzazione delle pareti, tale da trasformare lo spazio in un luogo indefinito e senza limite: privo perciò di una cornice che lo contenga. Nessuna immagine, né alcun’altra cosa vengono incontro a chi attraversa la stanza, tanto che si potrebbe pensare che non vi sia – qui – altro che un’assenza. Eppure, grazie alla luce al neon, una sorta di pulviscolo biancastro (diafano e trasparente) permea l’ambiente integralmente, definendo al suo interno un corpo denso e inafferrabile allo stesso tempo. Tutt’altro che segno del vuoto, questa materia aerea, che si sottrae all’apparenza, è piuttosto la condizione (il medium) per cui tutto può farsi visibile, tangibile, udibile – tranne sé stessa. E forse, per troppa evidenza, questo supporto invisibile di tutto ciò che appare viene trascurato da sempre, omesso, rimosso dal nostro pensiero. Cosa c’è di tanto enigmatico, in questo luogo, che fa sparire dalla vista ciò che lo istituisce? 

L’elemento che si lascia percepire senza manifestarsi non è altro che l’aria. Quella risorsa inapparente, che potremmo assumere come il dato ultimo della ricerca artistica di Laura Grisi, della sua cosmologia. Un ente a cui l’artista, tra gli anni ’60 e ’70, si avvicina per approssimazioni successive, per progressioni asintotiche, per imperfette traduzioni dell’originale: senza mai fornirne un calco materiale o un duplicato. L’artista sa bene che l’aria (il suo ininterrotto divenire) non è oggettivabile, localizzabile, riducibile a presenza: se non a costo di decretarne l’oblio. In questo senso l’intero suo lavoro risulta uno sforzo titanico nel rendere conto dell’ampiezza, dell’illimitato, di ciò che è impercettibile, così come della proliferazione senza fine di tutto “il possibile”. Partendo però da vincoli precisi, da gap paradossali, differenti limiti linguistici e semiotici: da tutti quei saperi che hanno condotto il presidio teorico maschile e occidentale tanto al dominio della natura che all’oblio dell’aria.  

Lontano dal carattere mistico di Immaterieller Raum di Yves Klein (realizzato a Krefeld nel 1961), così come dallo psicologismo dei coevi ambienti di luce californiani (di Doug Weeler, Robert Irwin, James Turrell, tra gli altri), Volume d’Aria di Laura Grisi è un ambiente di vita al grado zero. L’aria vi figura come un medium disponibile ovunque, senza limiti. Ma soprattutto come elemento basilare dell’esistenza organica e dell’esperienza sensoriale, che noi attraversiamo e da cui, ugualmente, siamo attraversati. Un sistema dinamico di flussi e forze diventa così la sede di tutti gli eventi che alimentano e definiscono, senza interruzione, il mondo in cui viviamo. E si contrappone al piano solido e inerte in cui il pensiero classico occidentale colloca la materialità delle cose.  

Non sorprende, perciò, che questo ambiente rappresenti soltanto una fase – per quanto paradigmatica – del ciclo di metamorfosi attraverso cui Laura Grisi dà spazio all’atmosfera, nei suoi cambi di pressione, di temperatura, evaporazione, condensazione, ecc. O, meglio, rappresenta solo uno tra tutti i casi in cui l’artista impiega l’atmosfera come generatrice di spazi, dando origine ad una serie di ambienti in cui fenomeni naturali sono riprodotti artificialmente e trasposti dall’esterno all’interno dei luoghi espositivi. Sono tutte risposte ai differenti impatti che le condizioni climatiche incontrate a diverse latitudini hanno avuto su di lei. Il vento è al centro del suo intervento per Teatro delle mostre presso la galleria La Tartaruga nel 1968 e di un film 16 mm in bianco e nero dello stesso anno. La nebbia compare, assieme a delle colonne luminose, nel cortile della Marlborough Gallery di Roma nel 1969; la pioggia viene presentata nella personale di Grisi presso la Galerie E. M. Thelen di Colonia nel 1970. Il vortice è invece oggetto di un film 16 mm a colori che, all’interno di uno spazio circolare, viene proiettato sul pavimento[iv]. Ma è ancora la natura mediale dell’aria ad essere visualizzata da Grisi negli effetti ottici, uditivi, sensoriali a cui dà origine. L’arcobaleno, all’interno di una stanza, ricrea “tutti i colori dello spettro che l’aria, essendo incolore, lascia passare attraverso”[v]. Nella sua personale presso la Galerie E. M. Thelen del 1970 la rifrazione è ottenuta grazie alla luce e all’inserimento di tubi metallici in bacini d’acqua circolari, trasparenti e opachi. Le stelle, infine, sono l’effetto della diffrazione quando fonti luminose ad alta intensità incontrano una lastra di piombo e riescono a perforarla. L’ambiente Luce + Calore = Tempo di Fusione che Grisi realizza nel 1970 alla Galleria del Naviglio di Milano è il teatro di questo evento. Si tratta di altrettanti capitoli di un progetto più ampio non portato a termine, visto che l’artista si riprometteva stadi ulteriori – “ci sarà ancora la grandine, e la condensazione e il raffreddamento dell’aria”[vi] – mai però realizzati. “Non mi interessavano quadri o sculture che contenessero l’aria, la terra o l’acqua.”  – ha commentato l’artista per differenziare il suo lavoro dall’Arte Povera – “Non volevo che l’aria, la terra o l’acqua diventassero oggetti. Volevo ricreare l’esperienza dei fenomeni naturali”[vii]. Né reificata in oggetto artistico, né esclusivo oggetto di studio scientifico – l’aria per Grisi è più ampiamente un medium vitale condiviso. É lo spessore invisibile tra due soggetti, che mette in rapporto il tutto con sé stesso. È l’involucro fluido (il virtuale) che conserva vive le cose e le rende conoscibili, che le fa apparire alla nostra percezione ogni volta diverse e singolari, eludendo le significazioni inequivocabili o le codificazioni che vengono loro attribuite. La teorica femminista Luce Irigaray è esplicita al riguardo: “L’aria non è il tutto del nostro abitare in quanto mortali? Esiste un dimorare più vasto, più spazioso, e anche più generalmente quieto di quello dell’aria? Può l’uomo vivere altrove che nell’aria?”[viii]. Ma la domanda a questo punto si sdoppia. Perché mai la funzione vitale del respiro dovrebbe rimanere fuori dall’incontro di Grisi con l’aria, visto che è la condizione imprescindibile dell’esistenza? E c’è un altro segno che, più della voce, sia diretta emanazione della respirazione? Della sua urgenza? 

Quando nel 1971 Grisi comincia a registrare i micro-suoni della natura, in uno dei suoi lavori testuali dattiloscritti riporta le seguenti istruzioni per la esecuzione del suo pezzo: Far dire le stesse 4 parole a 100 persone diverse registrandole. Ascoltare a velocità rallentata. In ogni enunciazione la voce eccede sempre la parola. Lo spessore immateriale della voce conserva viva la polivocità semiotica di ciò che è detto, lo singolarizza e lo rinnova, lo rende esistente. Nullifica la sua univocità e apre un campo imprevisto di possibilità. Ecco che partire da Volume d’Aria per una rilettura del profilo artistico e culturale di Laura Grisi ci offre una duplice opportunità. Da un lato ci consente di vedere la svolta più concettuale del suo lavoro non come una biforcazione (il famoso eclettismo) ma in continuità rispetto alla sua precedente attività, sbarazzandoci di tutti quei canoni normativi che ne hanno resa difficile la collocazione (quando non l’hanno esclusa) all’interno della narrativa egemonica e universalizzante di una storiografia modernista e maschilista. Dall’altro lato ci obbliga a riconoscere l’aria (e le sue forme) come un tratto tipico (uno spostamento paradigmatico?) di un’inscrizione dell’attività artistica nel femminile, che sfugge alle pretese normative di identificazione visiva.  

Non c’è qui alcuna volontà di colmare una lacuna, con la restituzione di un’artista donna a quella storia ufficiale che ne avrebbe decretato l’esclusione. Lo scopo è semmai quello di decostruirne i parametri in funzione di una pluralizzazione delle narrative, delle rappresentazioni, delle differenze. Ecco che, allora, c’è la possibilità di lasciar emergere tutta una genealogia di lavori in cui la ricerca di Grisi appare pionieristica: la serie Atmospheres (1968-1971) di Judy Chicago, City of Clouds (1968) di Maria Nordman, Structures of Air (1970) di Teresa Burga, Rhythm 4 (1974) di Marina Abramovic fino a Be Careful With What You Wish For (1998) di Monica Bonvicini, A Wind Woman (2003) o To Breathe – A Mirror Woman (2006) di Kimsooja, Structure for Communicating with Wind (2012) di Celine Condorelli. E l’elenco potrebbe continuare. Ma in fondo, non è Laura Grisi stessa (così come le artiste donne della sua generazione) la prova di un’assenza all’interno della storia dell’arte, pur avendone fatto parte? Certo è che nel suo lavoro molti sono gli aspetti che definiscono un’alternativa all’ordine patriarcale, come il rifiuto di un fondamento cognitivo solido e misurabile, il decentramento del soggetto creatore, l’opposizione alla crononormatività e il privilegio accordato all’ascolto rispetto all’enunciazione[ix]. All’interno di un’attività molteplice che assume quale propria basilare condizione quella del “viaggio” (dai luoghi remoti attraversati alla varietà dei media utilizzati), Laura Grisi incarna una sorta di soggetto femminile apolide e nomade che sfida le politiche dell’identità, la univocità della rappresentazione e l’unidirezionalità del tempo. È l’urgenza di temi come il genere, l’ecologia, l’interculturalità che determina, oggi, l’attualità della sua riscoperta, ben oltre la natura concettuale del suo lavoro. In Grisi la tensione tra macro e microscala, tra i dati e il possibile, (la legge e il caso, l’universale e il particolare, il passato e il futuro) è messa in scena ogni volta attraverso una radicale politica dell’attenzione rivolta al minimo, al marginale, al grado zero: quattro ciottoli, il suono delle gocce d’acqua, il colore delle foglie di mango, la direzione del vento, il passaggio percettivo tra le sensazioni, i rumori prodotti dallo spostamento delle formiche sul terreno. Tale attenzione estrema è sempre l’oggetto di un rituale antropologico di cui ci sfuggono le coordinate culturali: contare granelli di sabbia, misurare la forza del vento, distillare percezioni sensoriali, rifotografare con altra lente foto già fatte, permutare cose e oggetti, ascoltare l’inudibile. Come se l’incommensurabile fosse sempre il dato ultimo (l’esito imprevisto) di un infaticabile processo di misurazione, dove i segni e i linguaggi non sarebbero altro che il limite iniziale del possibile. “Il suo lavoro – come scrisse Lucy Lippard nel 1979 – sta in equilibrio tra le alternative possibili e la mancanza di alternative. Di solito sceglie il sistema permutazionale e poi accetta le sue conseguenze”[x].  

Se è vero che l’opera di Laura Grisi ci espone a una ecologia del virtuale[xi], ciò accade non perché c’è in essa un’aspirazione all’astrazione ma, all’opposto, per una adesione alla fisicità dell’esperienza che ne pone in discussione la rappresentazione. Non è Volume di Aria qualcosa che richiede la partecipazione sensoriale dello spettatore? Non è la proposta di una presenza che, come tale, recalcitra a essere fotografata?[xii] 


 

[i] I titoli dei cinque paragrafi del saggio sono citazioni da un lavoro testuale di Laura Grisi esposto nella rassegna Roma, Mappa 72, a cura di Incontri Internazionali d’Arte, Palazzo Taverna, Roma 20 novembre -18 dicembre 1972. Fa eccezione il titolo del terzo paragrafo che è tratto dal libro d’artista Distillations: Three Months of Looking, Edizioni Artestudio Macerata, 1970. 

[ii] Volume d’Aria è realizzato per la mostra Nuovi Materiali, Nuove Tecniche, Caorle 1969. L’unica volta che è stato ricostruito è in occasione della mostra Artificial Nature, a cura di Jeffrey Deitch e prodotta da Deste Foundation for Contemporary Art, The House of Cyprus, Atene 1990. 

[iii] Laura Grisi, L’aria è la certezza visiva di uno spazio, in Qui – Arte Contemporanea 6, Roma, settembre 1969. Il testo era già stato pubblicato nel catalogo della mostra Nuovi Materiali, Nuove Tecniche. 

[iv] Il film Whirlpool viene esposto con il titolo Gorgo alla Quadriennale di Roma 1973 ed è stato riproposto nella mostra The Measuring of Time Muzeum Susch 2021. Si tratta di una videoproiezione a terra di un film 16 mm a colori che ricopre l’intera superficie dell’ambiente e riproduce un vortice circolare entro cui il pubblico è invitato a entrare. Una volta al centro di questa virtuale condizione atmosferica (a velocità concentrica e cromaticamente mutante), risucchiato totalmente dalla profondità vertiginosa del vortice, lo spettatore cessa di percepirsi esterno al fenomeno. Inizia a sentirsi parte di un processo difficile da bloccare, da ricondurre a metri e misure. Questo flusso permanente non altera semplicemente le condizioni di stabilità percettiva dell’ambiente, disilludendo il nostro bisogno di orientamento. Neppure si limita ad opporre il limite spaziale della sala espositiva all’illimitata trasformazione dei fenomeni naturali. L’aspetto fondamentale del lavoro sta nel porci di fronte a un dilemma basilare: che il pensiero, in sè, sia movimento, la dotazione inesauribile di un soggetto nomade.  

[v] Laura Grisi in Essay-Interview by Germano Celant in Laura Grisi. A Selection of Works with Notes by the Artist, Rizzoli International Publications, New York 1990, p.31 

[vi] Laura Grisi, L’aria è la certezza visiva di uno spazio, op.cit. 

[vii] Laura Grisi, Essay-Interview by Germano Celant, op. cit., p. 24 

[viii] Luce Irigaray, The Forgetting of Air in Martin Heidegger, trans. Mary Beth Mader (Austin: University of Texas Press, 1999), 8. The text was originally published in 1983 in French. Il testo di Irigaray è qui ampiamente utilizzato.  

[ix] Non si tratta di valutare l’adesione o meno al movimento femminista da parte di Laura Grisi ma di sottolineare l’inerenza di orientamenti e pratiche di soggettivazione ai quadri di riferimento epistemologici di genere degli anni ’70. La politica dell’ascolto come momento privilegiato rispetto all’enunciazione non è solo oggetto del femminismo della differenza ma anche e principalmente di Carla Lonzi. Sulla cronormatività vedi invece Elizabeth Freeman, Time Binds. Queer temporalities, queer histories, Duke University Press, Durham 2010, p. 3. 

[x] Lucy R. Lippard, Intricate Structure/Repeated Image, Philadelphia: Tyler School of Art, Temple University 1979 

[xi] É Felix Guattari a parlare di ‘ecologia del virtuale’ in L’oralità macchinica e l’ecologia del virtuale, Caosmosi (1992), Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 88-97. 

[xii] Robert Barry aveva fatto fotografie della sua Inert Gas Series (1969) nel Mohave Desert ma proprio per dimostrare che esse non avrebbero fornito nessuna prova visiva. Tuttavia a differenza dell’opera di Grisi Inert Gas Series non presuppone alcuna presenza e interazione fisica dello spettatore.