Luca Lo Pinto con Nicolás Guagnini
Intervista
Di seguito è possibile leggere l’intervista di Luca Lo Pinto a Nicolás Guagnini in occasione della mostra Farces and Tirades in corso fino al 22 maggio nella sezione PALESTRA.
Per tutta la durata dell’esposizione, il pavimento della sala sarà quasi integralmente coperto da un’installazione di fogli, stampati con la conversazione stessa, che costituisce il canovaccio di questa mostra, messo a disposizione, e ai piedi, del suo pubblico.
LUCA LO PINTO: La struttura della mostra s’ispira alla commedia dell’arte, creando uno scenario in cui le opere sono presentate come personaggi. Cosa t’interessa di questo genere drammaturgico e quali credi siano le sue potenzialità rispetto all’impianto concettuale di una mostra?
NICOLÁS GUAGNINI: La commedia dell’arte come genere è un umile bastardo, una caricatura dei “veri” costrutti della tragedia/commedia; le maschere sono rigide esasperazioni delle “espressioni” di attori capaci. In tal modo nega il progresso o l’idea sublime di una morale edificante. Personaggi archetipici improvvisano grottesche pantomime in scene minimali, e i meccanismi di rilascio emozionale e identificazione sono piuttosto ricorsivi, riducendo l’esperienza teatrale a un brutale e circolare ritorno del represso, come nei sogni ricorrenti. Questo è in sintonia con la logica del mio lavoro, dove episodi traumatici della mia infanzia in Argentina e interrogativi sul mio corpo e mascolinità sfilano dentro e fuori diversi medium. Ho trattato me stesso come personaggio e allo stesso tempo come maschera. Come esperimento sulla forma della mostra, permette al curatore un’interazione più plastica tra i lavori e propone un sottile legame col pubblico.
LLP: La mostra è divisa in due atti e gioca con il concetto di canovaccio, un soggetto preesistente, come una partitura, prestato all’improvvisazione. È possibile associare questa struttura binaria alla relazione tra istituzione e artista?
NG: Nel discutere cosa sarebbe rimasto e cosa rimosso tra i due atti, o la disposizione di certi lavori in relazione ad altri, la partitura ha certamente mediato tra i miei desideri e il programma dell’istituzione in maniera più fluida rispetto a una mostra statica. Le illusioni di determinazione autoritativa e autonomia interpretativa che tradizionalmente possiedono entrambe le parti di questa dialettica, artista e istituzione, sono ancor più complicate invece che risolte. Questo concedersi al processo mi sembra leggermente meno oppressivo.
LLP: Ritieni che la commedia e l’umorismo siano importanti nel tuo lavoro?
NG: Assolutamente. L’umorismo e la risata costituiscono una forma non dialettica di risoluzione delle contraddizioni. Nella maggior parte degli scherzi le cose sono nel posto e nel momento sbagliato; un pene al posto del naso, un pallone invece della testa, uno storico dell’arte al posto dello psicanalista. L’ironia e la satira sono molto più rivelatrici rispetto a un modello ideale.
LLP: Nei suoi ultimi anni Max Frisch, che visse a Roma per cinque anni con la compagna Ingeborg Bachmann, scrisse undici questionari su temi esistenziali. Uno di questi riguarda la speranza, e chiede: «Nessuna rivoluzione ha mai soddisfatto del tutto le speranze di chi vi ha preso parte; da ciò deduci che le grandi speranze sono ridicole, che la rivoluzione è superflua, che solo chi non ha speranza può evitare il fallimento, ecc., e cosa ti aspetti da questa evasività?». Qual è la tua risposta?
NG: Mia nonna Cata Guagnini fu tra i fondatori del trotzkismo argentino. L’assassinio di Trotskij in Messico da parte di agenti di Stalin è forse l’esempio più estremo del fallimento di una rivoluzione. Dal concetto trotzkista di «rivoluzione permanente» ho imparato l’importanza della contingenza. Sono più interessato alla contingenza della sovversione che alla trascendenza della rivoluzione. Nella sovversione, come nell’ironia, ci sono più gioia e abiezione, o eccesso, che speranza.
LLP: Paul Preciado, sull’abbattimento dei monumenti dei colonizzatori, ha scritto, «Lasciamo che i musei restino vuoti e i piedistalli spogli. […] È necessario far spazio all’utopia a prescindere dal fatto che arriverà o meno». Come artista, quale credi sia il ruolo dei musei oggi?
NG: I musei enciclopedici sono dispositivi per registrare la storia del potere e dell’oppressione, ma sono anche ottime macchine del tempo e forze di democratizzazione. Non m’interessa la nostalgia per un’utopia futura (come a Preciado – lui può permettersi di rigurgitare agit-prop e filosofia pop senza la tremenda responsabilità di fare arte), o la rassicurante complicità della critica istituzionale. Credo che la più grande sfida per i musei oggi sia quella di smettere di sottovalutare il pubblico e finirla di provare a far esaudire agli artisti le promesse non mantenute della democrazia. Questo già sarebbe d’aiuto. Non voglio più le bugie dei vincitori o i deliri degli sconfitti; le dialettiche storiche dovrebbero restare in caffetteria o nel guardaroba. Alla fine i musei riguardano la narrazione di storie, e sono stanco di saggi critici o parabole morali. Perché non del realismo magico o della fantascienza?
LLP: La tua pratica abbraccia vari ruoli come curare, scrivere, fare ricerca, gestire uno spazio, fare libri, mostre. Questo tuo utilizzare diversi metodi e strumenti si lega al desiderio di avvicinare pubblici differenti, o è più un’urgenza dettata dalla tua pratica, per espanderla?
NG: I pubblici interagiscono meglio quando sono costruiti o cercati invece che approcciati. Quest’eterogeneità deriva per lo più dalla mia insoddisfazione rispetto agli attuali curare, scrivere, fare ricerca, gestire uno spazio, fare un libro, una mostra, ecc. Mi sono preso la briga di creare un mondo del tutto parallelo dove ogni cosa è come penso debba essere: illusioni di grandeur, da approcciare con autoironia. La misura è molto importante per me, e spesso il ridimensionare mi ha donato precisione e specificità. Anche il collaborare si unisce a questi aspetti. Pedagogia e collezionismo sono da aggiungere alla lista, come due attività che mi hanno insegnato molto.