VALERIO MATTIOLI 
Nel giardino magnetico. L’Alvin Curran minimalista

In occasione della mostra Hear Alvin Here, in corso fino al 17 marzo 2024, si propone di seguito un estratto dal libro Superonda. Storia segreta della musica italiana (Baldini & Castoldi, 2016), in cui Valerio Mattioli, ripercorrendo la straordinaria stagione della musica italiana tra il 1964 e il 1976, racconta il periodo romano di Alvin Curran, tra Musica Elettronica Viva, il Beat ‘72 di Simone Carella e L’Attico di Fabio Sargentini.  

Tra i musicisti che nella prima metà dei Settanta si immolano alla causa della «musica per il popolo», c’è anche Alvin Curran. La Scuola di Musica Popolare di Testaccio non era in effetti un’iniziativa isolata, e il compositore americano ricorda anzi come «ci fu un movimento spontaneo in cui scuole di musica private, portate avanti dai gruppi della sinistra, a Roma spuntavano ovunque. Insegnavano jazz, improvvisazione, composizione…» E così, l’uomo che appena qualche anno prima aveva accolto orde di selvaggi nel capannone-studio di MEV, si ritrovava a prendere qualche scassato tram di periferia allo scopo di avvicinare proletari di tutte le età alla nobile arte della musica d’avanguardia: «Me ne andavo per i quartieri popolari e facevo improvvisazione vocale con la gente comune: casalinghe, commessi, artigiani, operai, pensionati e bambini. Era un periodo in cui avvertivi questa inebriante sensazione non tanto di rivoluzione, quanto che la cultura potesse diffondersi dal centro alla periferia, raggiungendo persone di tutti i tipi, non solo le élite».  

Negli anni si è molto ironizzato sulla figura di questi intellettuali borghesi che, incuranti delle differenze di classe, pretendevano di istruire borgatari e sottoproletari semianalfabeti mettendoli in contatto con linguaggi astrusi e certamente poco «popolari». Ma esperienze come quelle della Scuola di Testaccio e dello stesso Curran, erano tutto tranne che velleitarie: «Arrivavo, e nel giro di mezz’ora si era radunato un intero gruppo di “persone qualunque”: gente ordinaria che conduceva una vita dura, che doveva sopportare impegni diffi cili, e che faceva letteralmente cantare i propri polmoni, eseguendo blocchi polifonici e roba che nemmeno puoi immaginare (…) Fu un periodo fantastico».  
Per un americano dall’aria hippie che si era formato eseguendo i grandi classici della tradizione colta, gironzolare per borgate dalla pessima fama come Centocelle e Magliana, affollate di anziani accattoni dall’aria neorealista e giovani brigatisti in erba, doveva essere un’esperienza. Anche perché a quel punto Curran si era ritrovato, se non isolato, quantomeno solo; del gruppo originario di MEV era stato l’unico a essere rimasto in Italia, una scelta che a prenderla nel verso giusto aveva i suoi vantaggi, se così si può dire: «Nessuna altra nazione a me nota in quel momento, o che ho conosciuto dopo, offriva ogni giorno dell’anno instabilità, gioia e pericolo così memorabili». Diciamo che vivere nell’Italia di quegli anni aveva il fascino del thrilling.

Orfano di Rzewski e Teitelbaum e impegni didattici a parte, Curran aveva comunque continuato a fare musica, all’inizio portando alle estreme conseguenze la logica spontaneista delle jam improvvisate in quel di Trastevere. Nel 1970 fonda MEV 2, «una colorata accozzaglia di utopisti italiani di Campo de’ Fiori, quasi tutti analfabeti musicali, che pensavano di poter prendere in mano qualsiasi strumento e suonarlo, cosa che facevano davvero». MEV 2 resiste per circa un anno, ma dopo anni passati a eseguire mostri informi come Soundpool, per Curran la strada dell’improvvisazione collettiva è arrivata a un punto morto. Sempre in quel periodo è anche tra i primi in Italia a possedere il famigerato VCS3, il synth che di lì a breve folgorerà Battiato sulla via di «Fetus», poi lavora nelle gallerie, produce installazioni sonore, collabora ogni tanto col Living Theatre… Insomma, restare in Italia avrà pure avuto il fascino del brivido preinsurrezionale, ma sulle prime è come se Curran si ritrovasse indeciso su cosa diavolo fare in una nazione che dalle colorate fantasie del decennio Sessanta stava virando verso le tetre tinte degli anni di piombo. A salvarlo sulle prime è il teatro, o meglio ancora quella comunità off off sviluppatasi nel solco inaugurato qualche anno prima da personaggi come Carmelo Bene, oltre che dai ricorrenti passaggi dello stesso Living Theatre. Ai tempi, le cosiddette «cantine» romane si erano fatte un nome come epicentro della nuova avanguardia teatrale italiana: c’era la compagnia di Giuliano Vasilicò, autore di spettacoli che portavano nomi come Missione psicopolitica e Le 120 giornate di Sodoma, che entusiasmò gente come Roland Barthes; c’era il Teatro Alberico, ricavato come da prassi in un garage, dove andavano in scena i lavori di drammaturghi e registi come Mario Prosperi e Giancarlo Nanni; e c’erano attrici carismatiche come Manuela Kustermann, Rosa Di Lucia e Rossella Or. Era un teatro fatto di corpi nudi, fonemi, provocazioni, influenzato dalle arti visive e più prossimo all’happening che al detestatissimo «teatro borghese», e su tutto svettava la fi gura di Memè Perlini, uno che – per dirla con Curran – «assomigliava a uno zingaro» e che gettò nello scompiglio l’ambiente con una pièce «molto provocatoria: niente parole, solo luci, corpi, gesti, movimento e oggetti. Creava dei dipinti sul palco, un po’ come Bob Wilson».  

La pièce in questione è Pirandello chi? del 1973, che lo scrittore Franco Cordelli ricorda come «uno dei più rivoluzionari spettacoli del teatro italiano»; le poche foto superstiti mostrano una serie di fi gure e «quadri» in cui gli attori assumono pose che più che a Bob Wilson fanno pensare alle movenze di trapezisti e artisti da circo, ma forse è solo una suggestione dovuta al particolare che Perlini proveniva da una famiglia di giostrai. A ogni modo, col regista Alvin Curran comincia a collaborare dallo spettacolo immediatamente successivo, Tarzan del 1974, diventandone il compositore più o meno ufficiale. Questo coinvolgimento nei circuiti teatrali «di ricerca» non era fortuito: Pirandello chi? era stato presentato per la prima volta al Beat 72, e il teatro risolutamente antinarrativo prodotto nelle cantine poteva non di rado assomigliare più a un balletto dada che a una pièce nel senso classico del termine. Ma per quanto creativo e rivoluzionario fosse il teatro di Perlini e soci, per Curran si trattava comunque di musica «su commissione»; il Tango che nel 1974 scrive per Tarzan, è esattamente quello che il titolo suggerisce: un tango, appunto, per solo pianoforte e senza band o neòn, ma comunque lontano anni luce dalle trovate spaccatimpani del periodo MEV.  
È dopotutto proprio Curran a ricordare che «finita l’esperienza MEV, smisi di fare il cattivo ragazzo». Da rumorista spietato, si era trasformato in un placido hippie dedito a yoga, meditazione e cibi macrobiotici: era nel pieno della sua fase «trascendentale», e la musica che cominciò a produrre in quel periodo non poteva che testimoniare il cambio di passo. E poi, particolare se possibile ancora più decisivo, Curran si era stancato di ensemble raccogliticci e improvvisazioni collettive: aveva insomma preso a fare musica per conto proprio, circondato da null’altro che qualche bastoncino d’incenso e la solita confusione di registratori, echi a nastro, sintetizzatori e cavi, a cui aveva provvidenzialmente aggiunto un piccolo assortimento di percussioni e metalli di varia provenienza. Ne sarebbe uscita una musica per la quale non esiste altro aggettivo valido se non «meravigliosa».

Nello stesso 1973 in cui al Beat 72 va in scena la prima di Pirandello chi? il tempio dell’underground romano ospita anche Canti e vedute del giardino magnetico, la performance che per Curran significa il proverbiale nuovo inizio. E che inizio. Addio sfuriate proto-noise, addio cocci arrugginiti che grattano su superfici di lamiera e cemento: Giardino magnetico è una meditabonda, nostalgica suite improvvisata in cui si confondono sbiaditi ricordi estivi e intimi riflessi domenicali, suoni della natura e morbida elettronica per silenti pomeriggi fuori città. Dice bene Joan La Barbara quando, descrivendo il brano, consiglia: «Prendi la mia mano, unisciti al viaggio, chiudi gli occhi e fatti trascinare. Questa è musica dell’anima».  

Coi suoi loop che lenti galleggiano su fondali sfocati, i suoi scampanellii dorati, i suoi panorami immobili e muti, Giardino magnetico è un commovente inno che profuma di pace e abbandono, tanto rado negli ingredienti quanto denso nella sua malinconica solennità. «Nonostante faccia musica da molti anni», spiegò Alvin Curran qualche tempo dopo, «Canti e vedute del giardino magnetico è per me come una prima composizione. Questa rappresenta uno stacco radicale dai miei precedenti impegni di fare musica “sperimentale” e collettiva con il gruppo Musica Elettronica Viva, durati 7 anni, e segna l’inizio del mio ruolo di compositore-esecutore-solista. Giardino magnetico è un punto d’incontro, un momento unificante delle mie esigenze interiori a esteriori, nel quale convergono anche le mie strade europee e americane».  

Con «strade europee», Curran vuole in realtà intendere «spiagge mediterranee», o almeno questa è la sensazione che si ricava ad ascoltare il lungo brano. Un indizio proviene già dagli strumenti utilizzati, che tra gli altri comprendono: un sintetizzatore Synthi A (erede del VCS3), un piatto amplificato, un flicorno, delle campane di vetro, una kalimba, delle scatole metalliche suonate con un archetto, e dei non meglio precisati «tubi di plastica corrugati». Ma anche uno schiacciapensieri, campane e campanacci, la voce del soprano Margherita Benetti che intona un antico canto di lavoro dell’Emilia Romagna, quella dello stesso Curran che si leva in monodie arabeggianti, e poi «oggetti sonori» con registrazioni di rondini, api, rumori del vento, condotti dell’acqua, fi li dell’alta tensione, tutto documentato su nastro in posti come, oltre Roma, la Sardegna e la spiaggia di Lerici in Liguria. «Volevo costruire un pezzo nel quale i miei “paesaggi sonori” su nastro potessero fondersi insieme con suoni dal vivo, utilizzando la mia voce nonché gli ottoni, le tastiere e il sintetizzatore per creare dialoghi fra semplici linee melodiche da tempo presenti nella mia mente (…) e i suoni naturali», spiegherà poi; una musica cioè che, pur parlando «per se stessa», funzionasse anche come ritratto del legame tra luoghi e memoria.  

Alvin Curran aveva cominciato a collezionare field recordings molti anni prima, registrando i suoni delle fontane e il vociare dei vicoli di Trastevere; ma in Giardino magnetico è come se l’obiettivo si allargasse fi no ad abbracciare le dune, i vitigni, la granaglia, gli arbusti rinsecchiti di un’Italia variante eterea di quella dipinta a suo tempo da De Martino e Carpitella. «Sembrava che avessi raccolto tutta la musica di cui ero fatto assieme a quella che avevo fatto fino ad allora e l’avessi messa dentro quel lavoro», dirà a tal proposito il compositore, ed è un’affermazione difficile da non interpretare anche in senso biografi co, con l’americano trapiantato a Roma che silenziosamente prende coscienza di una doppia identità, geografi ca oltre che musicale.  

Questa specie di sdoppiamento che pare fondersi in un’opalescenza ipnagogica è perfettamente leggibile negli elementi che compongono Giardino magnetico dal punto di vista squisitamente musicale. A pensarci bene, quella di Curran è una musica che può facilmente essere interpretata come appendice onirica al lavoro che negli stessi anni stavano portando avanti formazioni folk come il Canzoniere del Lazio: più che un lavoro sulle «radici autentiche» della cultura popolare italiana, era anche quella una libera congettura su un immaginario arcaico e – perché no – un pizzico esotico che ancora covava sotto le ceneri del dopo-boom, e che nel Canzoniere del Lazio si era tradotto nel richiamo a qualche terrificante entità seppellita secoli addietro tra gli ultimi falò di qualche rito pagano. Dal canto suo, Curran riesce a evocare un’era altrettanto mitica e lontana nel tempo, ma lo fa attraverso i fantasmi di quegli spiriti benigni che ancora echeggiano nel rumore del vento sulle onde, nel ronzio delle api, nel canto delle rane… Il miracolo di Giardino magnetico, è proprio quello di saper risvegliare umori sopiti da tempo, senza però ricorrere al recupero letterale della tradizione. È come se il fatto che Curran non fosse italiano – o quantomeno lo fosse solo d’adozione – l’avesse messo in contatto con reminiscenze che la consuetudine, il sospetto, la semplice incapacità di cogliere il particolare, avevano precluso a chi in quei luoghi era nato e aveva vissuto da sempre. Curran però non era semplicemente un non-italiano. Era prima di tutto un poco più che trentenne originario del Rhode Island, e infatti Giardino magnetico è un lavoro tanto mediterraneo quanto americano. Per meglio dire, era un lavoro che dialogava a distanza con una delle correnti musicali che più aveva suscitato scalpore nei circuiti avantgarde della madrepatria, conquistandosi le simpatie del pubblico più giovane come gli strali dei sacerdoti della vera musica seria; ricorda a tal proposito Curran che, per la preparazione di Giardino magnetico, «incoraggianti erano i lavori che facevano Terry Riley, La Monte Young e Charlemagne Palestine, circa quel periodo». Non erano nomi a caso: innanzitutto, anno più anno meno, erano tutti suoi coetanei; e poi erano tra i nomi di punta di quello che di lì a breve sarebbe andato sotto il nome di minimalismo.

A Roma la musica minimalista era arrivata abbastanza precocemente rispetto alle origini americane: già alla fi ne degli anni Sessanta, compositori come Riley, Young e Palestine (e subito dopo Philip Glass e Steve Reich) suscitarono enorme entusiasmo presso appassionati e intenditori. Il dettaglio non da poco è che questi appassionati e intenditori erano persone che col mondo della musica intrattenevano nel migliore dei casi rapporti saltuari. Anzi, perlopiù era gente che di musica non si era mai occupata prima, e che quasi da un giorno all’altro si ritrovò a fare le veci di una scuola che si sarebbe presto rivelata tra le più influenti del secondo Novecento. Per i compositori americani, non era una novità: Riley, Young e gli altri, si trovavano più a loro agio nei loft d’artista che nelle sale da concerto, anche perché nelle sale da concerto non ce li volevano. A Roma successe più o meno la stessa cosa. Solo che al posto degli ex magazzini riconvertiti a studi d’arte di Downtown New York, la cornice divenne il solito ex garage.  

Il principale responsabile della diffusione del verbo minimalista in Italia fu una delle personalità più istrioniche dell’arte italiana: il gallerista Fabio Sargentini, uno che allo scadere dei Sessanta aveva compiuto a malapena trent’anni. Quando Sargentini comincia a lavorare nel circuito galleristico romano, sono ancora gli anni della scuola di piazza del Popolo e di fi gure ultra-glamorous alla Mario Schifano; lui però, che è più giovane e che nel mondo della pop art non si riconosce più, decide di muoversi per conto proprio: nel 1966, quando dal padre eredita la guida della galleria L’Attico, ha la brillante intuizione di legarsi ad artisti suoi coetanei come Jannis Kounellis e soprattutto Pino Pascali, che per Sargentini diventerà una sorta di fratello e musa. Come Sargentini, Kounellis e Pascali sono giovani e la pop art l’hanno non solo già superata, ma in qualche modo ripudiata: verso la metà degli anni Sessanta, cominciano a elaborare i temi di quella che poi il critico Germano Celant chiamerà Arte Povera, di fatto il più importante movimento artistico italiano dai tempi del primo Futurismo. A differenza della pop art, l’Arte Povera è un movimento apertamente di contestazione, «nata da stracci e lamiere», concettuale, sì, ma in maniera ruvida, sporca, insomma povera, «per un ritorno all’innocenza e alla verità e un allargamento e approfondimento dell’esperienza vitale».  

Anche se l’Arte Povera verrà in seguito ascritta a Torino, dove operano fi gure come Alighiero Boetti e Michelangelo Pistoletto, il rapporto che Sargentini instaura con Kounellis e Pascali garantisce all’Attico una notorietà destinata in pochissimi anni a fare piazza pulita della concorrenza, anche se – un po’ paradossalmente – questo avverrà solo dopo la prematura morte di Pascali nel 1968 e l’allargamento della galleria romana a contenuti distanti assai da qualsiasi principio banalmente «espositivo».  

Per cominciare, Sargentini decide di spostare la sua galleria su via Beccaria, in una nuova sede appena fuori le mura che circondano il centro storico di Roma ed entro le quali, negli anni Sessanta, ancora operano tutti gli spazi espositivi degni di questo nome (compresi quelli pop); questa piccola mossa valeva da sola come gesto polemico e dichiarata sfida al sistema, ma ancor più esplicito era il luogo fisico in cui il nuovo Attico si veniva a trovare: contrariamente al nome che lascia pensare al sottotetto di un palazzo, la galleria di Sargentini non è semplicemente al pianoterra, ma in un ex garage che ancora puzza di benzina, e coi segni degli pneumatici che imperterriti chiazzano il pavimento. «Era underground», spiega lui, un posto cioè che alle feste hip con aperitivo al Bar Rosati sostituiva il fascino spoglio di locali come il Beat 72 – che non a caso con L’Attico instaurerà sin da subito un rapporto preferenziale.  

La scelta degli spazi, l’atteggiamento degli artisti coinvolti, il tipo di opere ospitate, facevano dell’Attico un naturale corrispettivo di quanto negli stessi anni stava succedendo nei circuiti downtown di New York; la conferma arriva a Sargentini dalla coreografa Simone Forti, che incontra subito dopo la morte di Pascali e che aiuta il giovane gallerista a ripensare L’Attico in una dimensione nuova, parecchio inusuale per gli standard italiani: «Mi spiegò che a New York musicisti, danzatori, scultori, pittori collaboravano tra loro. Philip Glass e Richard Serra, per fare un esempio. Tutto un mondo in ebollizione che non si ritrovava nelle classiche gallerie: cercavano spazi diversi nell’ottica della commistione delle arti, una chiesa sconsacrata, il greto di un fi ume, il roof di un grattacielo». È una visione che Sargentini abbraccia subito col tipico trasporto dell’eretico illuminato: «Questo feci con la sede del garage: spazi ampi, ma nello stesso tempo adatti alla performance, allo spettacolo, non soltanto a oggetti immobili».  

Di oggetti immobili all’Attico se ne vedranno in effetti pochi. La primissima «esposizione» della nuova sede nel garage è una rassegna di filmati sul Sessantotto francese firmati Jean-Luc Godard. L’ultima, nel 1976, sarà l’inondazione del locale sotto 50.000 litri d’acqua per la creazione di un Lago incantato, che i visitatori potranno ammirare per tre giorni. Ma l’evento che scaraventa la galleria romana nella leggenda (secondo Sargentini, «la mostra in una galleria privata più celebre del Novecento»), risale al gennaio 1969 ed è quando Kounellis porta nel garage di via Beccaria dodici cavalli vivi, lasciati lì a fissare i muri, a nitrire e a orinare sul pavimento. Le foto dell’installazione (perché di questo si tratta) fanno il giro del pianeta ed eccitano non poco i più spavaldi supporter dell’arte contemporanea. Per L’Attico è la consacrazione, come Sargentini puntualmente ricorda: «Tutto il mondo seppe che c’era uno spazio completamente diverso. Andai a New York con Simone [Forti], e in un party sentii delle persone che dicevano: ma sapete che a Roma c’è una galleria che ha esposto dodici cavalli vivi?!?» Quando si dice il trionfo.

Per tutto il periodo che va dai cavalli di Kounellis alla chiusura del 1976 (con trasferimento dell’Attico in una sede meno «controversa»), il garage di Sargentini sarà effettivamente il tempio, ampiamente discusso e ammirato, di alcune tra le più intrepide esperienze del periodo. Vi passano non solo artisti come Gino De Dominicis (che all’Attico presenta un’altra installazione rimasta famosa come Lo zodiaco), Sol LeWitt e Joseph Beuys, ma anche danzatrici come Yvonne Rainer e Trisha Brown, compagnie come il Living Theatre, e poi filmmaker, performer e, ovviamente, musicisti. Di fatto, per qualche tempo L’Attico fu tanto locale da concerti quanto galleria: è tra l’altro qui che nel 1969 Steve Lacy ed Enrico Rava registrano «Roba», un disco in puro stile spontaneista con una formazione che secondo il trombettista comprendeva neofiti assoluti capaci tuttalpiù di «produrre dei barriti, dei fi schi, delle pernacchie. Steve ne era deliziato e teorizzava che questa fosse la vera musica primordiale. Vergine». Una cosa insomma molto MEV, e infatti a fare da ingegnere del suono – se così si può dire – c’era proprio Alvin Curran.  

Ma musicalmente parlando L’Attico resta soprattutto l’epicentro del minimalismo in Italia. Nel 1969 Sargentini organizza un festival di musica e danza al quale partecipano La Monte Young e Terry Riley, che presenta un brano composto in realtà nel 1967 ma appena pubblicato su disco: A Rainbow in Curved Air. È uno dei titoli più famosi del cosiddetto minimalismo storico ed è un brano che, coi suoi loop ipnotici ispirati alla musica indiana, ancora profuma di good vibrations, e il pubblico ne fu conquistato. Riley aprì la rassegna e, per Sargentini, «si capì subito che il festival sarebbe andato benissimo. Il pubblico era tutto a piedi scalzi, facemmo scalzare tutti…» Per terra, assieme ai segni degli pneumatici e alle chiazze lasciate dall’urina dei cavalli di Kounellis, il pavimento sembrò idealmente ricoprirsi di mandala disegnati da qualche mano invisibile e pia.  

Tempo dopo, all’Attico arrivano anche Philip Glass, Steve Reich, Joan La Barbara, Charlemagne Palestine… Per Alvin Curran, «c’è stato un periodo tra la fi ne degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta in cui Fabio Sargentini invitò l’intera scuola downtown di New York», e per molti di questi artisti si trattò non solo delle prime esibizioni in Italia, ma in qualche caso anche in Europa.

L’Attico è anche all’origine di uno dei più importanti eventi artistici di quegli anni: Contemporanea del 1973, vale a dire la mostra su suolo italiano più studiata a livello internazionale. Per quanto a idearla fu il critico Achille Bonito Oliva, tutto in Contemporanea rimandava alla galleria che Sargentini aveva fondato in via Beccaria: se L’Attico occupava gli spazi di un ex garage, Contemporanea si svolgeva nell’immenso parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, che per intenderci distava dall’Attico non più di un chilometro scarso (e che era stato progettato da un maestro del modernismo italiano quale Luigi Moretti). E se L’Attico rifiutava di ridursi alla semplice esposizione di «oggetti immobili», ospitando senza troppe distinzioni ballerini, musicisti e performer di ogni tipo, il programma di Contemporanea prevedeva dieci sezioni suddivise in: arte, cinema, teatro, architettura, fotografi a, musica, danza, libri e dischi d’artista, poesia visiva e concreta, informazione alternativa. Non mancava quasi niente: c’era Christo che impacchettava l’antica Porta Pinciana, Jospeh Beuys che si domandava «dove sarei arrivato se fossi stato intelligente», Marina Abramovic che tirava colpi di coltello e poi, naturalmente, danzatori che ballavano e musicisti che suonavano.  

La sezione musica – così come quella danza – era curata da Sargentini in persona, e oltre alla solita crema del minimalismo USA (c’erano Philip Glass, Terry Riley, La Monte Young e Charlemagne Palestine) comprendeva il cantante indiano Pandit Pran Nath, che di Young e Riley era maestro, ma anche una vecchia conoscenza dell’improvvisata radicale come Cornelius Cardew e uno storico esponente di Fluxus in Italia come Giuseppe Chiari.  
Con centinaia di nomi provenienti da tutto il mondo, Contemporanea fu un successo straordinario: molti degli artisti si erano già segnalati come mostri sacri dell’arte, altri lo sarebbero diventati di lì a breve, ma la mostra ideata da Achille Bonito Oliva più che guardare ai grandi musei internazionali sembrava in realtà infettata dal più corrosivo spirito underground. La sezione dedicata alla «informazione alternativa», con testi firmati Stampa Alternativa, Gianni Emilio Simonetti e Franco Basaglia era sintomatica, e la sezione musicale era un ulteriore indizio in tal senso. Perché per quanto i vari Glass, Young e Riley potevano tranquillamente ricadere in quella fumosa categoria che va sotto il nome di «compositori d’avanguardia», la realtà è che, ancora nel 1973, quasi nessuno li prendeva sul serio, almeno negli ambienti cosiddetti colti.

«Una delle urgenze del minimalismo», spiega Alvin Curran, «era tagliare i ponti con quella teologia modernista che stava diventando un blocco insensato alla creatività». Il minimalismo americano insomma, era un movimento che sin dai suoi albori si era deliberatamente opposto al rigido formalismo del serialismo integrale, ma fi n qui potrebbe essere letto in maniera non dissimile da altre esperienze come l’improvvisazione radicale dei vari GINC, MEV e AMM. Il vero «scandalo» del minimalismo, era in realtà che si trattava di musica tonale. Quasi mai, nelle loro composizioni, i minimalisti suonavano dissonanti: per quanto sfiancante potesse risultare la «musica ripetitiva» di Glass e Reich, era pur sempre composta da particelle melodiche che a prenderle singolarmente suonavano spudoratamente kitsch. E un tipo come Terry Riley, che andava in giro vestito da indiano e si esibiva in maratone di trance music palesemente drogata, faceva venire in mente più un fricchettone sballato che un composto frequentatore dei corsi di Darmstadt.  
Negli Stati Uniti questo significò l’automatica esclusione del minimalismo dai circuiti dell’accademia, coi compositori che per vivere dovevano arrabattarsi come meglio potevano: «Glass faceva lo stagnaro», ricorda Sargentini; «faceva l’idraulico a New York!» In Italia, le reazioni furono simili: quando sempre Philip Glass si esibisce all’Attico nel 1972, riempie il locale e la sua performance è un chiaro successo di pubblico, ma la sua eco nel giro della musica che conta è virtualmente nulla. «Chi recepiva erano le riviste musicali di rock», puntualizza ancora Sargentini. «Lì sì, uscirono dei begli articoli. C’era un’attenzione di un mondo underground, alternativo…»  

Il risultato fu non solo che, come ribadisce sempre Sargentini, «la musica più d’avanguardia che ci fosse si performava in luoghi non istituzionali», ma anche che a innamorarsi delle trame ossessive di Glass e soci furono principalmente gli stessi giovinastri capelloni che ancora popolavano le varie Trastevere sparse per il Paese, e che alle sale da concerto dove venivano presentati i lavori di Nono e Berio preferivano di gran lunga le feste di «Re Nudo».  

C’era una certa logica in questo: coi loro volumi altissimi, i suoni elettrificati, l’andamento psichedelico dei brani, i capelli lunghi che andavano su e giù in veri e propri headbanging che potevano andare avanti per ore, tizi come Philip Glass e Terry Riley facevano pensare più a musicisti rock che a distinti diplomati al conservatorio. In più, era gente che le proprie composizioni, anziché affidarle a ensemble terzi, le suonava sul palco in prima persona, magari accompagnata da gruppi dalla formazione più o meno stabile come da tradizione jazzistica o rock. Questo particolare era un ennesimo motivo di sospetto da parte dei compositori autenticamente «seri», ma intanto quella del «compositore-performer» divenne una fi gura familiare: «questo binomio era molto usato allora per indicare un compositore che esegue anche le sue musiche», spiega Curran; «in fondo è quello che la musica è sempre stata: Bach, Mozart, Beethoven lo facevano».  
Compositori-performer erano già stati anche Franco Evangelisti, il GINC, e naturalmente MEV. Si capisce quindi l’interesse che Curran provò per l’avvento dei minimalisti a Roma, alimentato tra l’altro dal fatto che… be’, che erano americani, esattamente come lui: quelli venivano da downtown New York per suonare all’Attico e lui stava lì a osservarli pensando «eccomi lì, un downtown townie a Roma». Che i suoi percorsi finissero per incrociarsi con quelli dei suoi (ex) connazionali, era in qualche modo destino: «Divenni molto vicino a future grandi star come La Monte Young, Philip Glass, Steve Reich, nel cui ensemble finii per suonare un’estate». Ma a ispirarlo più di tutti fu senza dubbio Terry Riley, col quale Curran condivideva non pochi lati caratteriali: entrambi erano persone dall’indole pacifica e solare, che preferivano sorridere al mondo anziché crogiolarsi nello sturm und drang dell’artista tormentato. Il fantasma di Riley, con le sue tastiere che reiterano sognanti arabeschi dalla misteriosa aria esotica, aleggia in tutto «Giardino magnetico», specie nella seconda parte.

L’arrivo del minimalismo a Roma e lo stesso «nuovo inizio» di Alvin Curran non sarebbero comunque stati possibili senza il supporto di Simone Carella, uno dei quattro o cinque personaggi-chiave di tutto l’underground non solo romano, ma italiano tout-court.  

Carella era un giovane freak, poeta, performer, impresario, regista e «accattone d’elezione» (definizione sua) che negli anni Sessanta aveva fatto vita da capellone a piazza di Spagna prima di ritrovarsi invischiato nella nascente scena del teatro sperimentale. Al Dioniso Club entra in contatto col giro Nuova Consonanza, frequenta i musicisti dell’avanguardia romana, e verso la fine del decennio entra a gamba tesa nella programmazione del Beat 72, curandone sia la sezione musicale che quella teatrale. È grazie a Carella che tra L’Attico e il Beat 72 si instaura un binomio che idealmente lega i sottoboschi della più tossica suburra underground alle più raffinate esperienze dell’arte avantgarde; ed è sempre Carella che rimedia a Sargentini i pianoforti Bösendorfer che tizi meticolosi come La Monte Young e Charlemagne Palestine pretendono come condicio sine qua non per le loro esibizioni.  

Per qualche tempo Carella è anche il principale aiutante di un artista come Gino De Dominicis. La sua specialità sembra davvero essere quella di «rimediare roba» agli altri: quando nel 1972 De Dominicis ha la brillante idea di esporre, alla Biennale di Venezia, una persona affetta da sindrome di down seduta davanti a un cubo invisibile (…), è ancora Carella che gira per calli e canali fi no a scovare tal Paolo Rosa, che i giornali descriveranno senza tanti giri di parole come «un mongoloide». Titolo dell’opera è Seconda soluzione di immortalità (L’universo è immobile); è ricordata come uno dei picchi concettuali di De Dominicis, ma in quel 1972 provoca a lui e Carella i prevedibili guai: i due vengono processati per, ricorda Carella, «sequestro di invalidi con l’aggravante della premeditazione. Quando andammo al processo, l’avvocato Fabrizio Lemme mi disse che rischiavo 12 anni. Dagli atti processuali Gino risultava l’ideatore e mandante, ma io l’esecutore materiale del sequestro!»  

I due vennero comunque assolti; l’avvocato che li aveva difesi, scrisse a Fabio Sargentini una cartolina in cui trionfante annunciava: «L’arte ha vinto». Perché era sì un legale, ma anche un frequentatore dell’Attico. «In questo modo ho dato il mio contributo all’arte concettuale», ricorderà poi: detta da un avvocato è, se vogliamo, un’affermazione concettuale anch’essa

Carella fu anche il principale responsabile della trasformazione del Beat 72 da anti-Piper dove andare a ballare e sentire musica strana, a cantina per eccellenza del teatro off off (è stato autore per il teatro egli stesso). Ma all’epoca le due vocazioni – quella musicale, e quella scenica – dovevano apparire quasi sovrapponibili: anche Alvin Curran, quando sempre grazie a Carella presenta Giardino magnetico al Beat 72, più che a un semplice concerto pensa a una performance con tanto di scenografi a debitamente «povera»; le sue esibizioni richiamano lo stesso pubblico che qualche anno prima si era innamorato della repetitive music di Riley e Glass, e di sicuro hanno un enorme ascendente su non pochi musicisti di area rock, non solo romani. Vanno a vederlo Franco Battiato e Claudio Rocchi, che quattro decenni dopo ricorderà: «faceva vedere delle mostruosità intelligentissime, tipo dei loop con quattro Revox in fila, dove la prima bobina era distante otto testine di lettura e registrazione dall’ultima, col nastro che poi tornava indietro al contrario. Adesso sono cose che fai tranquillamente con un pedalino, ma per allora era una follia, un’esperienza espansiva, uno squarcio che allargava la tua percezione delle cose. Era il messaggio del periodo». Quello a cui Curran non pensa nelle sue performance del 1973, è il disco. Che in effetti vedrà la luce solo due anni dopo, arrivando nei negozi a 1975 inoltrato e riscuotendo comunque un certo successo non solo tra i critici del nuovo pop, ma anche presso settimanali generalisti tipo «L’Espresso»: «Fu un hit. Finì su tutti i giornali in Italia (…) Da un giorno all’altro, ero diventato un personaggio. Non direi una star, ma sicuramente tutti volevano che portassi questa performance ovunque».  

Una star magari no, ma una piccola celebrità un po’ sì, almeno stando ad alcuni adorabili ricordi del compositore: «Una volta in pieno agosto montai sul treno da Roma a La Spezia. Visto che non c’erano posti liberi feci il furbo ed entrai nel vagone letto che era quasi voto. Lì trovai il cuccettista che mi disse “non preoccuparti, puoi stare qui” (…) Poi all’improvviso attaccò a conversare con me, iniziando con “Tu devi essere un artista…” “be’ sì, in realtà sono un compositore” (…) E lui: “che tipo di musica fai?” Come al solito balbettai qualcosa cercando una risposta semplicistica (…) “Aspetta, aspetta, vuoi dire musica elettronica”… pausa… “Ma conosci Alvin Curran?” e a questo punto con un gran sorriso dissi: “io sono Alvin Curran”. “Nooo?” disse cadendo quasi dal sedile».  

Ricordi del genere sembrano davvero dipingere un Italia diversa, lontana e forse addirittura mitologica; se non altro, sembrava un posto ospitale: «Sia benedetto l’infinito spettro di colori culturali degli italiani, in qualsiasi altro Paese del mondo un musicista d’avanguardia sarebbe sconosciuto tra i lavoratori, ma ecco qui un controllore delle Ferrovie dello Stato che aveva messo me e la mia musica tra i suoi favoriti. Benvenuti a NovoItaliaGrad, nazione di contadini lavoratori e artisti che vivono insieme in perfetta armonia!» Viene da chiedersi che diavolo gli sia successo, a quella benedetta NovoItaliaGrad.

Quando esce il disco di «Giardino magnetico», Curran ha già pronto il seguito da almeno un anno. Fiori chiari fiori scuri viene presentata nel 1974 (al solito, l’album arriverà tempo dopo, e per la precisione nel 1977) ed è un altro delicato, fragile, preziosissimo affresco minimalista, con voci di bambini che parlano, rumori di grilli e cani, suoni di campane, elettronica pastorale, flauti indiani, loop in reverse, e pianoforte strumming più Palestine che Riley. Per quanto Curran ne parli come di «un lavoro parecchio più complicato (…) un antidoto alle atmosfere lussureggianti di “Giardino magnetico”», «Fiori chiari fiori scuri» è a tutti gli effetti un «Giardino magnetico» parte seconda, ugualmente trasognato e toccante, nonché il nuovo capitolo di una trilogia che si concluderà nel 1977 con «Canti illuminati».  
Nel frattempo però NovoItaliaGrad è come al solito in ebollizione, e Alvin Curran, che a questa «nazione di contadini lavoratori e artisti che vivono insieme in perfetta armonia» ci tiene, è ancora una volta pronto a mettere spartiti e Revox al servizio del popolo in lotta. Succede insomma che nel 1973 viene occupata l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, e gli studenti lo chiamano a… be’, non è chiaro a fare cosa: loro sono attori, lui è un musicista che però ha solidi agganci nel mondo del teatro, e quindi dai e dai qualcosa viene fuori: «Dissi “ok, adesso stendetevi tutti sul pavimento”. Era un pavimento di legno non molto pulito, ma loro lo fecero lo stesso. Dissi: “respirate”. E poi: “quando le vostre corde vocali sentiranno come il bisogno di vibrare, fatele vibrare il più lentamente possibile”». Quelli obbediscono, e la cosa piace. Due anni dopo, a occupazione ormai conclusa e col ritorno alla didattica di tutti i giorni, qualcuno all’Accademia se ne ricorderà e Curran verrà assunto come insegnante, sotto l’inedito titolo di «professore di improvvisazione vocale». Tracce di quegli esperimenti si trovano anche in «Giardino magnetico» e «Fiori chiari fiori scuri», ma il più affascinante lavoro sulla voce (altrui) Curran lo firma in collaborazione con una cantante e attrice che invece che essersi formata studiando John Cage si era fatta le ossa nei vecchi cabaret della Milano «esistenzialista», e che poi aveva dato inizio a una carriera che dire tortuosa è dire poco.

Lei si chiama Maria Monti: nel 1973, quando chiama Curran a curare le musiche del suo nuovo album, alle spalle ha già un quindicennio di attività in cui è passata senza soluzione di continuità dalle partecipazioni a Sanremo alle collaborazioni con Sylvano Bussotti, dalle pièce con Carmelo Bene alle canzoni folk sulla falsariga del Nuovo Canzoniere Italiano, dalle particine in Giù la testa di Sergio Leone alle meno impegnative comparsate in TV. Mettiamola così: era una tipa eclettica.

Nel 1972, per l’album «Maria Monti e i contrautori», si era ritrovata accanto Gianfranco Coletta, uno che qualche anno prima aveva suonato negli psichedelici Chetro & Co., e Gianni Nebbiosi, ancora in epoca pre-Canzoniere del Lazio; ne era uscito un interessante disco di teatrocanzone militante, ma subito dopo la Monti decide di fare le cose sul serio e quando si rivolge a Curran ha in mente una cosa a mezza strada tra l’operetta brechtiana e la Nico post-Velvet Underground, con magari qualche spruzzata di folk madrigalesco alla Giovanna Marini (ma una Marini sotto LSD) e un po’ di sano spirito free. Anzi, già che c’è, a collaborare all’album chiama pure Steve Lacy, che come al solito in quel periodo si trova in Italia.

Il risultato è «Il Bestiario» del 1974, un disco ispirato ai testi del poeta e drammaturgo Aldo Braibanti, che nel 1968 era stato al centro di un famoso caso giudiziario in cui venne condannato per l’assurdo reato di plagio (era omosessuale e secondo l’accusa aveva corrotto le abitudini di un ragazzo per giunta più che maggiorenne. Da parte sua, il ragazzo ribadì di non essere vittima di alcun plagio, ma i pubblici ministeri pensarono bene di non dargli retta perché… be’, perché era a sua volta corrotto). Ma al di là degli intenti politici, «Il Bestiario» è in realtà un bagno di colori folk-psichedelici che incorporei esitano nell’aria, lasciandosi dietro un’agrodolce scia di desolazione e nostalgia, qualcosa come una tristezza al miele, o quel tipo di tiepido struggimento che viene da associare ai brevi pomeriggi di inverno. La mano di Curran è particolarmente avvertibile in brani come Il pavone, un precoce esempio di trance minimalista in salsa pop; o nella lunga Aria, terra, acqua e fuoco, con gli arpeggi di pianoforte che di nuovo rimandano ai tempi sospesi di Terry Riley. Ogni tanto pare persino di avvertire i vecchi fantasmi del periodo MEV, con folate di elettronica noise che maligni disturbano valzerini mitteleuropei e dissennati madrigali cantati da una strega.  

La Monti all’epoca de «Il Bestiario» era impegnata a studiare le stesse tecniche vocali che Curran sperimentava coi suoi allievi all’Accademia d’Arte Drammatica, ma questo lo vedremo a breve. Nel disco però, di vocalismo «estremo» ce n’è poco, e anche le eccentricità più vistose vengono sempre tenute a bada; in fondo è meglio così: i suoi timbri asciutti, che controllati passano dalle tonalità più gravi a quelle più elegiache, regalano all’album un’eleganza severa e quasi intimidente, al punto che «Il Bestiario» è uno di quei dischi che ascolti quasi con rispetto, perché lasciarsi andare a reazioni troppo sopra le righe suona quasi sconveniente.

Per Alvin Curran, quella con Maria Monti sarà l’unica collaborazione autenticamente «pop», naturalmente prendendo il termine con le dovute precauzioni. Ammesso che, alla loro maniera, non siano pop anche dischi come «Giardino magnetico» e «Fiori chiari fi ori scuri», che pur con tutte le loro stranezze suonavano senz’altro più «umani» di un album a caso degli Area: se ad ascoltare Curran negli angusti spazi del Beat 72 erano perlopiù capelloni e rocchettari come Claudio Rocchi, un motivo in fondo ci sarà – e questo senza mettere in dubbio la statura del Curran compositore «serio», per carità.

«Il Bestiario» comunque è un episodio meno isolato di quanto si pensi nel panorama italiano del periodo. Di fatto, la Maria Monti che dalle ballate popolari passava ai loop elettronici non stava facendo altro che adeguarsi a quello che Rocchi avrebbe chiamato «il messaggio del periodo». Pur in tutta la sua austera eleganza, era un lavoro che – esattamente come le esposizioni all’Attico e la stessa Contemporanea – profumava di cantine e rifugi carbonari, di utopie comunitarie, persino di comunione cosmica, per usare il lessico dell’epoca.

Che poi, questo fantomatico Giardino magnetico immaginato da Curran, cosa altro poteva essere se non, più che un praticello, una comune underground? E va bene, i Sessanta erano finiti da un pezzo e per le strade più che good vibrations si respirava il puzzo delle molotov: ma non era forse quello un ulteriore motivo per rifugiarsi in una nazione altra, parallela e indifferente a quella ufficiale?