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Giuseppe Ungaretti, rubrica “Italia domanda”. In Epoca, anno VII, no. 276. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 15 gennaio 1956 

 

 

Non so giudicare. Non so, non ho mai saputo scagliare la pietra. Pound viveva da tanti anni in Italia, e l’amava, non più della sua Patria, ma l’amava. Il suo cuore fu straziato nel vedere i due Paesi che gli erano più cari, nemici. Fu errore dirlo? Fu grave errore? Non giudico. Quelle pagine lette alla Radio di Roma, le ho qui, nel volumetto dove sono uscite quest’anno raccolte. Non le udii allora alla Radio. Le leggo oggi. Mi domando se quei pochi periodi, difficilmente intelligibili anche da dotti, dove si parla in modo stralunato e sibillino di lavoro e usura, abbiano fatto il minimo male, non dico a un essere umano, ma a una mosca. La responsabilità delle guerre è di chi ha nelle mani il potere, è dei generali che fanno i piani e guidano le truppe, è dei diplomatici che hanno il mandato d’informare sullo stato della situazione internazionale, non è di un poeta la cui mente e i cui affetti possono anche essere sconvolti dalle terribilità d’una guerra.  

 

In ogni caso da dieci anni, se fu errore, il poeta sconta il suo errore in un manicomio criminale. A molti di quelli che erano forse davvero – non giudico – criminali di guerra, s’è già usato indulgenza.  

 

Non giudico, ma credo che il mondo si ritroverebbe meno infelice se gli uomini riscoprissero, dopo tanta cecità spietata, la luce del perdono.  

 

Se quello di Pound fu errore, lo ha anche troppo scontato. Non credo che un poeta abbia diritto a un trattamento di favore. Un poeta è un uomo come gli altri uomini. Ha forse la capacità di soffrire più degli altri. Ma si prescinda anche dalla pena scontata: il prestigio straordinario che la poesia di Ezra Pound reca oggi da ogni parte del mondo alla sua Patria, non supererebbe di gran lunga il torto che in un momento di smarrimento passionale, egli può forse averle recato?  

  

Giuseppe Ungaretti
POETA