MARIO DIACONO
Macroscrittura, Microvisione. Cronideologia dell’iconizzazione del verbale

In occasione della chiusura della mostra dedicata al critico d’arte, poeta, scrittore, gallerista e traduttore Mario Diacono (tenutasi dal 15 luglio al 24 ottobre 2021) e dell’apertura nella stessa sala ARITMICI della mostra della poetessa bolognese Patrizia Vicinelli (in programma dall’11 novembre 2021 al 27 febbraio 2022), in questo EXTRA vi proponiamo un estratto proveniente dal saggio di Mario Diacono Macroscrittura, Microvisione. Cronideologia dell’iconizzazione del verbale – presente nel libro Contemporanea del 1973 – che è introduzione e approfondimento sul tema della poesia concreta e fa, quindi, da trait d’union tra le due mostre.

È comunemente riconosciuto che l’emergenza verso gli ultimi anni cinquanta della “poesia concreta” ha ri-iniziato l’esperienza “astratta” della letteratura. Già nella definizione del movimento, una metà dell’espressione “poesia”, appartiene al lessico critico del verbale, e l’altra metà “concreta”, al lessico critico delle arti visive contemporanee (Max Bill). Lo stesso si può dire dei titoli che la poesia non-verbale o non-lineare ha assunto nel decennio successivo, “poesia visiva”, “poesia visuale”, “poesia oggettuale”, fino alle ultime esperienze che si potrebbero chiamare, se non è stato ancora fatto, di “poesia concettuale”: dove l’aggettivo definitorio e caratterizzante il generico sostantivo “poesia” proviene dall’area lessicale della figuratività. Cosi pure, per dare qualche ulteriore esemplificazione, mentre nel 1965 la prima importante esposizione di poesia visuale, all’Institut of Contemporary Arts di Londra, s’intitolava Between poetry and painting, una mostra di artisti inglobanti l’elemento verbale nelle loro opere, tenutasi nel 1967 al Museum of Contemporary Art di Chicago, veniva etichettata “Pictures to be read / Poetry to be seen”. L’accentuazione dell’elemento ‘intermedia in queste due mostre, era anche una conseguenza del dato che i critici di arti visive hanno messo a fuoco il fenomeno della scrittura visuale prima di quanto non abbiano fatto (ammesso che abbiano poi fatto) i critici letterari. Il che ha avuto le sue inevitabili conseguenze metodologiche, negli anni sessanta, per cui una mostra dal titolo Concrete poetry tenutasi nel 1969 alla Fine Arts Gallery della University of British Columbia di Vancouver, associava ai nomi di Belloli, Gomringer, Finlay, Kriwet e Niikuni quelli di Kosuth, Nauman, Oldenburg, Kaprow e Vasarely. Tranne poche eccezioni, gli scritti critici, le antologie più importanti (quelle di Pignotti, di Williams, di Bory, della Solt, il saggio antologia di Spatola) sono stati opera degli stessi «scrittori» impegnati nella dilatazione e intensificazione visuale del verbale letterario. Proseguendo nella lista delle equivocità, delle ambiguità o delle interazioni (a seconda di come si preferisca nominare il fenomeno), troviamo alla fine degli anni sessanta i testi della scrittura visuale con un piede ancora nello spazio comunicativo editoriale (spesso limitatissimo, se non proprio clandestino) e un altro in quello delle gallerie, con i galleristi a sostituire spesso il ruolo economico degli editori, a conferma che anche al livello del consumo viene accettata la supposta condizione intermedia di quei testi tra pittura e poesia. Quando il testo prendeva comunque la strada del libro anziché quella della parete di galleria, di solito il numero delle copie pubblicate dell’opera era inversamente proporzionale alle sue resistenti relazioni con la letteratura.

Con generalizzazione forse eccessiva, si può dire che il passaggio nella produzione dall’opera-libro all’opera-quadro/scultura/fotografia è stato promosso dal consumo specifico che le opere visuali hanno incontrato verso la metà del decennio scorso, il consumo galleristico e collezionistico, e tale passaggio ha portato con sé un abbassamento del tasso semantico del testo, un’espansione del o una riduzione al suo momento ideologico o concettuale, cioè ha spinto lo scrittore a un’ipervalutazione e al privilegiamento degli elementi grafici e tattili di superficie della scrittura nei confronti della parola ‘ interna dell’opera.

È certamene prematuro qualificare come negativo un tale comportamento, è probabile ch’esso sia dovuto al bisogno dello scrittore di esplorare subito nel tempo quanto in là può spingersi coi suoi mezzi nello spazio, ma mi sembra innegabile che intanto si sia arrivati a un generale livello internazionale, a una situazione di micropoesia macrovisuale. 

Naturalmente la dimensione «visuale» non è nata nella poesia con l’esperienza «concreta»; già nel ’63 Belloli sistematizzava in un saggio sul n. 3 di Pagina la quantità di esperienze futuriste, dadaiste, cubotuturiste e costruttiviste che nel decennio 1914-24, cominciando dalle pagine tipovisuali di Lacerba, avevano iniziato la serie di esplosioni a catena nella Gutenberg’s Galaxy. Ma quelle esperienze non s’erano attestate su una specifica frontiera teorica di eidopoesia. 

Quelle operazioni di visualizzazione nella scrittura erano piuttosto il prodotto di complesse e radicali ideologie globali del comportamento estetico, dirette a una trasformazione dei moventi di “tutti” i linguaggi artistici. Con la sola eccezione di Marinetti, mi pare.

Schwitters, Van Doesburg, Lissitzkij eclissano l’aspetto verbale della scrittura esaltandone quelli visivi e fonetici soprattutto come un’estensione al linguaggio della poesia delle riformulazioni effettuate nel linguaggio della pittura. E infatti, tra il ’25 e il ’55 la nozione di “poesia” è legata ai nomi di Eliot, Pound, Ungaretti, Breton, Artaud, Lorca, Rilke, Maiakovskij, Mandelstam, sostanzialmente. La poesia visuale (ri)nasce negli anni cinquanta col movimento “concreto” partendo non dalla pagina fisicamente stravolta dell’avanguardia storica, ma da quella linearmente “composta” dei poeti sopra ricordati, su cui viene diretto un lavoro di geometrizzazione, simmetrizzazione e riduzione tipografica. È solo negli anni sessanta che si ha un ritorno consapevole al rimosso, una riemergenza filogenetica dell’esperienza postverbale futurista-dadaista-costruttivista. 

Chi ricordava dopo il 1950 che Moholy Nagy aveva scritto nel 1926, in un testo intitolato Tipografia temporalizzata (Zeitgemässe Typographie): «Il grigio testo tipografico cederà il posto al libro-immagini colorato, da esperienziarsi come un flusso visuale ininterrotto (la sequenza strutturata di una serie di pagine individue)»? 

In ogni caso, neppure si può dire che questo si costituisca come l’obiettivo primario della visualità della poesia a dimensione iconica/semiotica quale s’è andata attuando negli ultimi anni, cosi come la “pittura” non si imita a ricalcare oggi con variazioni i temi strutturali di Malevic e di Mondrian. Con la poesia “concreta” riappariva la nozione di avanguardia formale, in letteratura, ma spogliata degli accenti rivoluzionari/utopici che avevano caratterizzato i linguaggi dei movimenti d’avanguardia prefascisti, prenazisti, prestaliniani. 

Addirittura vistosa era nella nuova scrittura visuale l’assenza d’una qualsiasi espressa polemica nei confronti della poesia “tradizionale”. 

Il nuovo linguaggio visuale si presentava subito non come un’alternativa alla “vecchia” poesia ma come una direzione indipendente da essa, parallela sia alla letteratura che alla pittura, non interdipendente con l’una né con l’altra. Che poi la scomparsa della poesia verbale (e del romanzo) come arti maggiori nella fase storica attuale sia una conseguenza diretta del versarsi delle energie creative nella scrittura visuale, resta un’ipotesi, forse prematura, da verificare.